Il ritratto fotografico non è in grado di cogliere l’essenza di una persona
Durante i miei workshop di Ritratto, la prima cosa che chiedo ai miei studenti è cosa sia per loro il ritratto.
La maggior parte di essi mi risponde:“Cogliere l’essenza del soggetto”, oppure “Raccontare il soggetto”.
Molti fotografi, nel passato, hanno inteso il Ritratto in tal senso. Un esempio lampante è costituito dalla fotografa Julia Margaret Cameron, la quale intendeva la fotografia come un atto interpretativo, il cui obiettivo era quello di penetrare sotto la pelle dei soggetti. Per la Cameron, il modello mentale del processo che permette di ottenere un ritratto, appare molto simile a quello apocrifamente attribuito a Michelangelo in relazione al suo modo di fare scultura, scalpellando un blocco di pietra grezza fino a scoprire la forma che già viveva al suo interno in attesa di essere trovata.
In realtà, a mio modo di vedere, è estremamente raro e difficile che un ritratto riesca a raccontare completamente una persona. Infatti, ognuno di noi possiede tante personalità che non è possibile riassumere in una fotografia. Uno dei paradossi dell’identità, infatti, è che L’io assomiglia ad un gran teatro con tanti copioni e tantissimi personaggi che, a volte, si parlano addosso, a volte litigano, a volte si capiscono. E’ difficile che tutti questi personaggi vengano esternati e interpretati in un ritratto.
Il ritratto fotografico come testimonianza di un incontro
Nella mia personale esperienza, il ritratto è due cose allo stesso tempo:
Uno strumento espressivo:
A me personalmente, piace pensare al Ritratto come uno strumento per raccontare qualcosa di me. Dunque Ritratto come strumento espressivo.
Come sostiene Efrem Raimondi “il vero soggetto è l’autore, non la persona che hai davanti. Ed è la tua faccia che mostri, la firma è la tua: il nome della persona che hai davanti è solo un dettaglio”.
Inoltre c’è da notare che, come sostiene Angier Roswell nel libro “Educare lo sguardo”, “il soggetto, inevitabilmente, risente dello sguardo profondo del fotografo, il quale diventa anch’esso parte integrante della foto”.
La Testimonianza di un incontro:
Naturalmente, per la riuscita di un buon ritratto, è indispensabile l’interazione tra fotografo e soggetto. Ecco che anche in questo caso il Ritratto diviene, inevitabilmente, il frutto di questa collaborazione. Risente, quindi, della personalità del soggetto. Le parole di Toni Tohrimbert riassumono questo importante concetto:
“Il Ritratto è la testimonianza di un incontro, non è l’indagine su un altro. Primo, perché nessuno di noi è psicologo. Poi perché dell’anima degli altri non ne sappiamo un cazzo. Non ne sappiamo della nostra, figuriamoci degli altri”.
Ecco che il ritratto, come si evince dalle parole di Tohrimbert, essendo il frutto di una collaborazione di due persone, diviene un mutuo darsi.
Il momento dedicato allo scatto è, infatti, un meraviglioso dono reciproco, in cui due vite si incrociano e trovano una sorta di sintonia da cui nasce lo scatto (o gli scatti).
Per questo, il cosiddetto ritratto rubato non può essere definito come Ritratto, perché rubare non è donare… è prendere furtivamente, senza nemmeno sapere cosa si sta prendendo. D’altronde, risulta impossibile replicare lo stesso ritratto, perché è frutto di un momento unico, irripetibile, che non tornerà più.
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